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5 buoni motivi per sostenere Confprofessioni sull’equo compenso

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La Confederazione ha lanciato la campagna #iononlavorogratis, grazie alla quale sono già state raccolte oltre 3.000 firme su change.org

Confprofessioni, la Confederazione Italiana delle Libere Professioni, si sta battendo per il diritto a un equo compenso. Lo sta facendo attraverso la campagna #iononlavorogratis, grazie alla quale sono già state raccolte oltre 3.000 firme su change.org.

Ma perché quest’azione andrebbe sostenuta?

La Confederazione spiega le sue ragioni in 5 passaggi.

1. Non si può pretendere una professionalità a costo zero. In ogni settore dell’economia, ogni bene, prodotto, servizio ha un prezzo. Persino il lavoro ha un valore economico (seppur poco riconosciuto). In tutti i settori che fanno girare l’economia ogni cosa ha un costo. In quasi tutti. Perché in Italia, di questi tempi, va molto di moda, soprattutto nella pubblica amministrazione, la bizzarra tendenza di non pagare il lavoro dei professionisti. Del resto, si sa, in un regime economico improntato più al taglio della spesa che agli investimenti, la regola numero uno è tagliare. Anche quando si deve progettare una strada o un ponte, risanare il bilancio di un Comune sull’orlo del collasso finanziario o magari quando si ha bisogno di un superesperto di diritto nazionale, europeo, societario, bancario e dei mercati e intermediari finanziari…

2. È un modo come un altro per calpestare i diritti di quei cittadini che quel ponte lo devono attraversare o di quelli che in quel Comune dissestato ci devono campare per tutta la vita. A ben guardare, infatti, in questa surreale partita, dove si fronteggiano amministratori senza risorse e professionisti in saldo, sono in gioco i diritti, la sicurezza e il benessere delle persone. La logica dell’appalto in economia, del massimo ribasso, degli incarichi professionali a titolo gratuito non è soltanto un freno alla crescita economica, bensì la miope consapevolezza di giocare d’azzardo sui diritti, sulla sicurezza e sul benessere dei cittadini. La miope coscienza di impoverire un Paese, di svilirne la sua cultura, di ignorare le sue competenze, di svalutare il suo lavoro.

3. Poco più di un anno fa, il Parlamento ha approvato la legge di Bilancio 2018. Tra le altre spiccava la norma che imponeva alle pubbliche amministrazioni di garantire che le prestazioni rese dai professionisti fossero equamente retribuite. Quattro milioni di persone ebbero un sussulto: la politica aveva finalmente compreso che promuovere il lavoro gratuito significa calpestare i diritti dei cittadini (e anche quelli dei professionisti). In fondo, l’equo compenso altro non è che il sigillo di garanzia sulla qualità di una prestazione professionale.

4. Ma non passeranno molti giorni prima di scoprire l’inganno: lo Stato, nella sua veste di datore di lavoro, permette ancora alla pubblica amministrazione di richiedere prestazioni gratuite o sottopagate per lavori che comportano responsabilità, costi e oneri professionali enormi. Come se non bastassero già i ritardi dei pagamenti. Non casi isolati e sporadici. Quella bizzarra tendenza a considerare il valore dello studio, della formazione, della competenza prossimo allo zero ha contagiato ministeri, regioni, Comuni, enti centrali e locali, che continuano a pubblicare bandi ed erogare incarichi dove il lavoro gratuito dei professionisti è la regola.

5. Il Consiglio di Stato dà loro ragione. E allora, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il 27 febbraio 2019, emana un avviso pubblico di manifestazione di interesse per incarichi di consulenza a titolo gratuito, per il quale viene richiesto un curriculum di primissimo livello, tant’è che il vincitore dovrebbe occuparsi di tematiche estremamente complesse legate all’applicazione del diritto nazionale, europeo, societario, bancario e dei mercati e intermediari finanziari. Non è molto confortante sapere che il Ministero dell’Economia e delle Finanze soprassieda a una norma prevista dalla legge di Bilancio 2018 e firmata dallo stesso Ministero. Ancor più doloroso scoprire che lo Stato, attraverso le sue amministrazioni, sembra aver dimenticato i valori sanciti dagli articoli 1, 3, 35 e 36 della Carta Costituzionale.